Quando si racconta del proprio mestiere non è sempre facile dimostrare che fare il critico gastronomico è un’attività impegnativa e non solo per l’organismo che accumula trigliceridi, zuccheri, colesterolo e, ovviamente, chili. Come in tutte le professioni ci sono i lati meno piacevoli, ma innegabilmente è una delle professioni più invidiate e, in tono polemico, diremmo usurpate.
E così, nelle occasioni in cui si è chiamati a disquisire di tematiche enogastronomiche, viene sempre il momento delle solite domande, ormai attese, a volte temute. Fuori luogo le più scontate: “ma dove va a mangiare quando vuole farsi piacere?” o la famigerata quanto inevitabile: “ma voi mangiate sempre gratis?”. Così credono tutti, leggende metropolitane, realtà virtuali che ci dipingono come un piccolo esercito di trasformisti intenti a modificare i tratti somatici per non farsi riconoscere dal giudicando oste di turno!
Interessanti le richieste di informazioni sui trucchi del mestiere e i parametri di valutazione. E così fioccano gli interrogativi su servizio, pulizia del locale, delle toilette, che celano arcani segreti e, nell’immaginario collettivo, sono il primo posto visitato, cantina, accoglienza in genere, arredamento e non ultimo, abbondanza delle porzioni. Per molti ancora, queste devono essere pantagrueliche, tali da saziare ataviche carestie celate nel profondo delle nostre memorie e a prezzi, "ça va sans" dire, da trattoria ante introduzione euro.
Chissà perché, nessuno pensa mai che il biglietto da visita del locale è il menu, senza accento per favore o per meglio dire la carta, quella che Marinetti nel Manifesto del Futurismo imponeva di chiamare “lista delle vivande”. Mentre menu, termine nato con Isabella di Baviera, indica in francese minuto, dettagliato e quindi una lista di portate prestabilite, in occasione di cene organizzate o di proposte a prezzo fisso, quali il menu turistico o il menu degustazione, tanto in voga negli ultimi anni. E come dimenticare il menu territorio, ancora in attesa di delimitazione dell’area geografica cui si riferisce!
Appurato che in sala ci possano sporgere una carta, un menu, o entrambi, apriamo gli occhi e commentiamo. Ancora prima dei piatti che arriveranno in tavola, la stesura delle proposte racconta molto del luogo in cui ci troviamo. Su pulizia e integrità del listino non dobbiamo transigere, immaginiamo la cucina o la divisa del cuoco quando le pagine ingiallite, sgualcite, sono screziate di macchie e aloni vari che anticipano gli ingredienti delle pietanze! Che dire delle passeggiate letterarie o musicali nel lessico artistico che vedono fiorire “sinfonie di pesci”, “trionfi d’autunno”,“cascate di frutti di mare” e altre inutili, vuote leziosità pompose e altisonanti?
E l’aperitivo di “benvenuto”? Logico aspettarsi, per par condicio, il caffè o il digestivo di “commiato” che non arrivano mai. Parafrasando il celebre adagio “consumato il pasto, gabbato il cliente…”.
Come non rimanere dubbiosi sulle “prelibatezze dello chef?” Nella mente diabolica del cronista si accendono due lampadine: dobbiamo dedurre che gli altri piatti sono banalità, mediocrità? Ma soprattutto ci si chiede chi le prepari, visto che queste sole sembrano attribuite al capocuoco come lo avrebbe definito Giovanni Vialardi?
Non pretendiamo poi che i ristoratori vantino lauree in lettere nel loro curriculum ma almeno esigiamo che l’ortografia sia rispettata. Oggi l’informatica aiuta ma anche un caro vecchio vocabolario torna utile. E il dizionario francese è d’uopo, visto che l’intento di Pellegrino Artusi di evitare “il gergo frangioso” in cucina non è stato raggiunto. Così si eviterebbero la “kitch alle verdure” che solo al momento del servizio si è capito essere una quiche, i vari “tartar” (tartare), “fois (foie) gras” e dulcis in fundo, “cream caramelle” (crème caramel).
Il “vulvan” lo citiamo a parte perché neologismo ormai consolidato che a nessuno verrebbe ormai in mente di scrivere vol au vent, a rischio di non sapere cosa sia. E sicuramente tutti abbiamo letto, per lo meno in Piemonte, dell’esistenza di un dehors che è erroneamente scritto “deor” o “dehor” e quasi sempre qualificato di esterno o completato dall’indicazione “fuori”. Pleonastica bruttura!!! Dehors in francese significa fuori, e nessuno dei cugini transalpini si sognerebbe di definire in tal modo la terrasse o la veranda.
Non rischiamo chiedendo al cuoco come faccia il brodo o il fumetto, sempre che siano farina del suo sacco, per non rabbrividire all’elencazione degli ingredienti che vedono primeggiare le “ossa”. Cibo per antropofagi che sarebbe meglio sostituire con ossi di specie animali più adatte allo scopo: pollo e manzo in primis. Sui nomi propri di vini, formaggi, personaggi che legano il nome a qualche ricetta e che sono regolarmente massacrati, basterebbe consigliare un’attenta lettura di etichette, manuali, riviste e testi vari.
Semplicità, cura, attenzione, dedizione, pulizia e passione che vogliamo ritrovare nei piatti devono essere anticipate nella stesura della carta e del menu, la tanto decantata cultura del cibo inizia anche da qui. Non resta che sperare di non avere commesso errori di ortografia o refusi, chi predica bene spesso razzola male.
Alessandro Felis