Si narra che già nel Medioevo l’antenato del Barolo godesse la fama di vino regale. Bottiglie di questo nettare erano spesso presenti sulla tavola di Luigi XIV, ma grandi estimatori ne furono anche re Carlo Alberto, i Marchesi di Saluzzo, quelli del Monferrato e Maria Cristina di Savoia. Sarà un matrimonio, quello dell’ultimo marchese Falletti di Barolo, Carlo Tancredi con la francese Giulia Colbert di Maulévrier a decretare la nascita del Barolo come lo conosciamo oggi. La marchesa, dimenticate le origini parigine e il matrimonio combinato da Napoleone, adotta queste colline.
Il suo salotto di Barolo era il luogo dove i Savoia facevano la diplomazia. Il vino prodotto nelle sue vaste tenute era già quello delle mense nobili, ma non soddisfaceva pienamente la marchesa, abituata ai potenti Borgogna e Bordeaux. Pertanto incaricò l’enologo francese Louis Oudart, già contattato da Cavour, di dare un nuovo indirizzo alla vitivinicoltura locale, apportando il suo savoir-faire a questi nettari dal grande potenziale. Il tecnico ben presto individuò quale fosse il problema, la non completa fermentazione del mosto da cui risultava, ovviamente, un vino dolce, poco alcolico, instabile che andava bevuto giovane.
Con la sua esperienza e la nuova metodologia di vinificazione il vino diventava forte, capace di mantenersi per tantissimi anni ed invecchiare a Palazzo Barolo a Torino. Insieme all’Italia, potremmo dire, nasceva il Barolo! I risultati ottenuti dal tecnico francese decretarono un repentino cambiamento in Langa. Vittorio Emanuele decise di convertire i terreni dei suoi possedimenti di Serralunga d’Alba in vigneti e Cavour si confermò abile viticoltore in quel di Grinzane. I suoi Barolo rivaleggiavano con i grandi crus transalpini ed erano ospiti fissi dei pranzi che soleva offrire a nobili e dignitari di corte.
Alla morte della marchesa nel 1864, senza eredi, tutte le proprietà passarono a un ente morale che aveva facoltà di vendere appezzamenti e tenute per alimentare le opere di beneficenza gestite dall’ente. Le proprietà si polverizzarono; i poderi allora in possesso dei marchesi Falletti rappresentano oggi la quasi totalità dell’area di coltivazione delle uve Nebbiolo per produrre quello che ancora oggi amiamo definire re dei vini e vino dei re. La leggenda a cui si fa risalire l'origine del nome Nebbiolo narra di un monaco che coltivava un piccolo orto, vicino alla povera capanna in cui viveva. Curava anche una piccola vigna da cui ricavava il poco vino che lui stesso consumava.
Un mattino il monaco trovò l'orto e la vigna avvolti da una fitta nebbia, collegò l'evento ad un ammonimento del Signore e subito smise di coltivare la terra dedicandosi alle orazioni. Quando arrivò il periodo della vendemmia, finalmente la nebbia scomparve, depositandosi sui grappoli ormai maturi che brillavano come gioielli al sole. Più diffusa l’interpretazione secondo cui il nome deriverebbe dalle nebbie che già avvolgono i filari al momento della raccolta di quest’uva tardiva. Per i tecnici, vale anche la spiegazione del copioso strato di pruina, cera biancastra, che ricopre l’acino; come sul Pinot Meunier, mugnaio proprio perché sembra cosparso di farina.
Il principe dei vitigni a bacca rossa del Piemonte per il re dei vini, sovrano di Langa e di Piemonte ma con numerosi principi ereditari alla sua corte. Tanti sono i figli di quest’uva: dalla Langa con il Barbaresco e il Nebbiolo d’Alba, passando dal Roero con l’omonina Docg fino alle colline dell’Alto Piemonte dove si chiama Spanna e si combina con altre uve autoctone per dare Gattinara, Ghemme, Lessona, Bramaterra, Boca, Fara e Sizzano. Senza dimenticare il montano Carema in provincia di Torino, dove diventa picòtener e al confine tra il capoluogo e l’Astigiano, l’Albugnano. Ma lo si ritrova anche nelle Doc Canavese, Coste della Sesia, Colline Novaresi, Langhe e Monferrato.
D’uopo ricordare anche, fuori dai confini regionali, la viticoltura valtellinese che molto deve al nostro figlio delle nebbie, localmente denominato Chiavennasca e che si declina in rossi nettari ma anche in raro e prelibato sfursat o sforzato, frutto dell’appassimento nei fruttai, vellutato e fascinoso compagno di lunghe meditazioni. La patria del Barolo, nel cuore delle Langhe, è l'omonimo comune che si incontra poco oltre La Morra, al centro di una vasta conca collinare ricoperta di rigogliosi vigneti di Nebbiolo. L'abitato è dominato dal castello dei Falletti, ora di proprietà comunale e sede dell'Enoteca Regionale del Barolo.
Undici comuni che si possono fregiare della Docg forse più famosa d’Italia, una delle più conosciute al mondo insieme al cugino toscano Brunello di Montalcino. Terre benedette dagli dei dell’enogastronomia, vino sì ma anche nocciole, frutta, pregiato bestiame da carne e il gioiello dell’autunno, il tartufo bianco che si nasconde per esplodere in fragranti lamelle dalle mille sfumature sui piatti della tradizione locale, tajarin e carne cruda di fassone, in primis.
Colline che seguono colline, così diverse e così uguali, così belle da vedere quando le stagioni sfumano i colori e cambia la fisionomia dei filari, delle piante, della natura e dell’uomo che è parte integrante di quest’universo incantato dove il vino sgorga da ogni grappolo, ogni cantina, ogni uomo o donna di Langa.
E tutti gli uomini e donne di Langa si ritrovano in ciascuna bottiglia di Barolo. Un vino che ha sempre fatto parlare di se, che ha sempre affascinato e che per molto tempo vedrà affrontarsi fautori dei Barolo rudi, spigolosi affinati in botti grandi ed i sostenitori del gusto internazionale, morbido, con passaggio in legno piccolo. Ma il Barolo, come sempre, vincerà nei cuori e nei …palati!
Alessandro Felis