Adaptive capacity e Coping capacity -
La prima Adaptive capacity, si riferisce all’abilità di un sistema di adattare la propria struttura e le proprie funzioni al cambiamento climatico nel lungo termine (azione ex-ante); la seconda, Coping capacity riguarda la capacità del sistema, usando le risorse disponibili, di gestire le condizioni avverse e far fronte attivamente nel breve periodo alle conseguenze del cambiamento climatico (azione ex-post) per ridurre gli effetti di un evento pericoloso.
Nell’ambito disciplinare della pianificazione al cambiamento climatico si parla di capacità adattiva in termini di risposta agli impatti del cambiamento climatico, come abilità dei sistemi, delle istituzioni e delle persone, di adeguare le proprie caratteristiche in risposta a danni potenziali o rispondere alle conseguenze. Mentre la capacità di reazione (coping capacity) mira a mantenere il sistema e le funzioni per fronteggiare le condizioni avverse, la capacità adattiva (adaptive capacity) implica il cambiamento e richiede riorganizzazione dei processi.
La capacità adattiva può contribuire alla riduzione della vulnerabilità, mitigando l’effetto della sensibilità e rispondendo positivamente all’effetto di esposizione. Una buona capacità di adattamento (es. corretta gestione della risorsa idrica, piano di allerta della protezione civile, etc.) richiede un’interazione di molteplici processi socio-economici (finanziari, sociali, istituzionali, tecnolo- gici e cognitivi) su diverse scale contribuendo ad anticipare, prevenire e ridurre i potenziali rischi attesi con il cambiamento climatico. Il consumo è per definizione un processo di adattamento della specie umana alle mutevoli condizioni ambientali e sociali: senza consumo non vi è riproduzione, evoluzione, cambiamento ma nemmeno conservazione, ripetizione, stabilità. Come sosteneva Marx, “Come una società non può smettere di consumare, cosi non può smettere di produrre. Quindi ogni processo sociale di produzione, considerato in un nesso continuo e nel fluire costante del suo rinnovarsi, è insieme processo di riproduzione e di consumo".
Trattandosi di un processo indispensabile per tutti i sistemi viventi, il consumo non dovrebbe creare così tante problematiche. Tuttavia esso è la causa dei cambiamenti climatici. Ogni attività implica il “consumo di natura” ossia di materia ed energia, e tale energia, che si tratti di energia endosomatica o esosomatica, proviene dalla natura (o meglio dal Sole) trasformandosi in differenti carriers (vettori) materiali: petrolio, carbone, gas, ma anche biomassa, vento, maree. La combustione di fonti fossili genera gas climalteranti che ad alte concentrazioni incrementano l’effetto serra naturale, dando origine al moderno riscaldamento globale del pianeta. Il fattore critico è che nell’attuale sistema economico il consumo di energia e materia, pur essendo un’attività universale e transtorica, tende a crescere continuamente per produrre beni di consumo e generare profitti economici.
Il fatto che il “consumo di natura” si dipani sulla base dei principi dell’economia capitalista in società sempre più complesse, lo trasforma in qualcosa di molto diverso dal semplice processo riproduttivo e metabolico, che rimane purtuttavia il suo principale obiettivo. La continuità storico-biologica della specie umana e dei suoi membri, garantita nel tempo da un sistema complesso di attività e pratiche di produzione, distribuzione, utilizzo e scarto di oggetti, si trasforma in attività tese principalmente al guadagno economico che rimuovono sistematicamente ogni limite fisico ed umano all’aumento del consumo e quindi della produzione. Quando il processo di riproduzione biosociale non riconosce più limiti sociali e naturali al suo divenire, quando la materialità delle nostre vite dipende da quanti beni abbiamo a disposizione, quando si pensa che la prosperità economica e il benessere sociale aumentino con l’aumentare del consumo, abbiamo già definito l’insieme di cause alla base del cambiamento climatico.
Il consumo che contribuisce al riscaldamento globale è quello richiesto dai processi di estrazione di materie prime ed altra energia, che viene poi spesa nei processi allargati di produzione, circolazione e consumo di beni finali. In questa interdipendenza di produzione e consumo sta probabilmente la principale moderna spiegazione del cambiamento climatico: senza consumo non vi è produzione, senza consumo, esaurimento, distruzione di materia, energia e beni finali non vi sono opportunità per la produzione (crescente) di merci. Consumo e produzione non vanno dunque trattati come mondi separati, inconciliabili, addirittura antagonisti, ma come due insiemi di processi e di attività che sono strettamente interdipendenti, e spesso, come nel caso del “consumo di natura”, indistinguibili. Ovviamente il consumo finale di molti beni da parte dei consumatori non genera direttamente gas serra. Piuttosto è il consumo di energia fossile nel processo di produzione, o l’allevamento dei bovini – e non il consumo di una bistecca – che genera gas serra. Purtuttavia, il driver della produzione di beni è il consumo di questi beni, e quanto più si consumano e più rapidamente, tanto più occorre produrne.
D’altra parte, il consumo, proprio perché organizzato collettivamente e gestito da grandi organizzazioni, è una causa delle emissioni di gas serra. Il trasporto, la circolazione, la distribuzione e la vendita al dettaglio delle merci implica un costante e crescente consumo di energia e di suolo, e perciò di emissioni. Peraltro, la separazione di produzione e consumo pone il problema della valutazione dell’impatto delle varie attività sulle emissioni di gas serra e quindi sul cambiamento climatico.
L'effetto serra è il fenomeno di riscaldamento globale del nostro pianeta dovuto alla presenza di alcuni gas nell'atmosfera terrestre. In particolar modo, anidride carbonica (CO2), metano (CH4) e vapore acqueo (H2O). Grazie all'effetto serra naturale il clima sulla Terra è ospitale per la vita e la temperatura media si attesta intorno ai 15°C. Se non ci fosse l'effetto serra, la temperatura media del nostro pianeta sarebbe pari a -18°C, molto inferiore al punto di congelamento dell'acqua e le condizioni di vita sarebbero proibitive per gran parte delle specie viventi. I gas serra presenti nell'atmosfera terrestre filtrano le radiazioni solari più nocive per la salute umana e ostacolano l'uscita delle radiazioni infrarosse. I raggi solari sono in parte riflessi verso l'alto dalla crosta terreste, in parte sono assorbiti dalla Terra e riemessi verso l'alto sotto forma di raggi infrarossi (IF) ossia di calore. Successivamente una parte dei raggi infrarossi rimbalza di nuovo verso il basso, grazie alla presenza dei gas serra in atmosfera. In questo modo il calore del pianeta non si disperde del tutto nello spazio e la temperatura media sulla Terra è più alta.
La resilienza climatica ha un’origine comune a quella intesa dalle scienze ecologiche. Essa viene definita come l’abilità di un sistema di reagire a fronte di eventi pericolosi (shock) e pressioni (disturbi/ stress), riorganizzandosi mantenendo le sue funzioni essenziali, preservando, tuttavia, le capacità di adattamento, apprendimento e trasformazione. Ciò implica la necessità di sviluppare un approccio che sia in grado di superare le attuali politiche di adattamento puntuali per specifici rischi climatici, considerando la resilienza come concetto che racchiude al suo interno tre elementi essenziali: - ridurre la fragilità del sistema di fronte agli impatti del clima e limitare gli effetti a cascata derivanti da uno specifico rischio tramite un potenziamento del sistema; - costruire le capacità degli agenti sociali (es. famiglie, comunità, società civile, imprese, settore pubblico) per anticipare e sviluppare le risposte di adattamento; - rinforzare e indirizzare le istituzioni (regole sociali e norme) fondamentali per orientare e connettere gli agenti e il sistema. Operativamente si possono definire poco resilienti i sistemi intrinsecamente vulnerabili a stress e shock, interpretando la vulnerabilità di un sistema come sintomo di carenza della resilienza.
Ciò nonostante, esiste una grande distinzione tra vulnerabilità e resilienza. La prima include l’esposizione a un pericolo specifico: soltanto legato a quest’ultimo la vulnerabilità prende significato. La seconda è intesa come caratteristica intrinseca esistente all’interno di un complesso sistema socio-ecologico, indipendentemente dall’esposizione, che si manifesta attraverso l’esposizione a stress e shock, e nella seguente ripresa del sistema. L’identificazione delle vulnerabilità è funzionale alle attività di sviluppo degli interventi necessari a rinforzare la resilienza.
Con il termine ‘transizione’ si intende il passaggio da una situazione (o una fase, o uno stato) ad un’altra situazione avente caratteristiche significativamente differenti rispetto a quella precedente. Con ‘transizione energetica’ si può intendere il passaggio da una situazione in cui l’energia viene prodotta tramite un certo mix energetico - ovvero in cui si ha una certa distribuzione del peso relativo di diverse fonti energetiche - ad un’altra in cui l’energia viene prodotta tramite un mix differente. Nel campo delle politiche ambientali ed energetiche, con tale termine si intende oggigiorno il passaggio (atteso e/o perseguito) da un mix energetico composto in grande prevalenza da fonti non rinnovabili come i combustibili fossili, ad uno composto in prevalenza, o perlomeno in misura significativamente maggiore rispetto ad oggi, da fonti rinnovabili.
Le transizioni energetiche del passato hanno richiesto diversi decenni per giungere a completamento. A livello mondiale la transizione ad un mix energetico prevalentemente basato su fonti non rinnovabili si è verificata solo nel primo decennio del ventesimo secolo. Ciò grazie al deciso apporto del carbone tramite il quale, da solo, veniva prodotta più della metà dell’energia. Più di 50 anni sarebbero poi stati necessari, all’interno di questa inedita ‘era dell’energia non rinnovabile’, per vedere il carbone rimosso dalla prima posizione, sostituito dal petrolio (Smil, 2010). Si prevede che l’attuale transizione ener- getica non saprà sfuggire a questi tempi lunghi. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA, 2018) la quota di energia prodotta nel mondo da fonti rinnovabili sarà, nel 2040 e nello scenario più favorevole, all’incirca del 40%.