Il 9 aprile 2017, Verona -
IL VITIGNO RISCOPERTO DA MARIUCCIA BORIO DI CASCINA CASTLET A COSTIGLIOLE D'ASTI SARÀ DEGUSTATO DOMENICA 9 APRILE DA 80 GIORNALISTI E MASTER OF WINE STRANIERI. INIZIATIVA DELLE DONNE DEL VINO CON IAN D'AGATA -
L'Uvalino, vitigno piemontese quasi scomparso, sarà protagonista domenica 9 aprile, alle 15, di una degustazione di vini rari a Vinitaly 2017, con un pubblico di buyer, giornalisti, master of wine e master sommelier, provenienti da tutto il mondo. È un'iniziativa dell'Associazione Nazionale Le Donne del Vino, che ha
affidato a uno dei maggiori esperti mondiali di vitigni autoctoni italiani, il giornalista Ian D'Agata, il compito di comunicare l'importanza che hanno avuto le donne viticoltrici nel custodire vitigni antichi che altrimenti sarebbero scomparsi.
Una storia comune a molti vigniti, tra questi l'Uvalino, vitigno rarissimo del Piemonte un tempo assai diffuso tra i filari dell'Astesana. Lo ha riscoperto Mariuccia Borio, Donna del vino e produttrice vitivinicola di Cascina Castlèt a Costigliole d'Asti, in quelle terre dove il Marchese Filippo Asinari, lungimirante viticoltore, per primo agli inizi dell'800 faceva le sue importanti sperimentazioni vitivinicole. Da 27 anni, crede e finanzia la ricerca universitaria per custodire e tramandare la coltivazione di Uvalino sulle colline di Costigliole.
"L'Uvalino ha sempre fatto parte della mia vita – racconta Mariuccia Borio - Dopo un periodo di appassimento, l'Uvalino veniva utilizzato come migliorativo per altri vini oppure vinificato in purezza ed era il vino delle grandi occasioni: matrimoni, battesimi, regali al medico, al farmacista, al parroco". E ricorda: "Negli anni '80, parlavo di uvalino con il produttore di Barolo Renato Ratti, che proprio di fronte a Cascina Castlèt, a Villa Pattono, aveva impiantato una piccola vigna che oggi non c'è più. Nel 1990 ho iniziato a pensare a questa ricerca".
Con il professor Lorenzo Corino, allora direttore dell'Istituto di Viticoltura di Asti, iniziano le prime ricerche in vigna. Poi le prime micro-vinificazioni sperimentali con l'enologo Armando Cordero e continuate con Giorgio Gozzelino, che ha sperimentato vari metodi di vinificazioni. Nel 1992 s'impianta il primo filare. Oggi sono circa un ettaro e mezzo, in due vigneti, ciascuno situati a 280 metri sul mare e allevati a guyout. Una ricerca che è stata un importante investimento economico, ma soprattutto di credibilità.
Dalla vendemmia 1995 collabora anche l'Istituto sperimentale per l'Enologia di Asti con allora a capo il professor Rocco Di Stefano. Fu la ricercatrice Daniela Borsa a coordinare gli studi dell'Istituto. Fu lei a presentare il progetto nel giugno 2003 in occasione del VII International Symposium of Oenology di Arcachon, organizzato dall'Università di Bordeaux, dove vengono presentate le più importanti ricerche europee in campo vitivinicolo.
L'iter burocratico per rendere l'uvalino un vitigno riconosciuto e permesso è durato alcuni anni in collaborazione con l'Assessorato all'Agricoltura della Regione Piemonte con l'allora responsabile di settore Ettore Ponzo. Il 16 luglio 2002 la Gazzetta ufficiale sentenzia la rinascita dell'uvalino che viene inserito come varietà riconosciuta. Una scommessa vinta.
Una curiosità scientifica: l'uvalino ha un contenuto altissimo di resveratrolo, sostanza antiossidante, presente circa 30/40 volte della quantità in più che si ritrova negli altri vini rossi. Il professor Aldo Bertelli e l'Istituto di Farmacologia di Milano approfondirono gli effetti benefici del resveratrolo.
La prima annata in commercio fu la vendemmia 2006: uscì nel 2009. Oggi sono circa 5 mila bottiglie. È un vino che deve essere apprezzato con qualche anno d'età. Dopo la vendemmia, l'uva racconta in piccole cassette viene appassita per un periodo variabile. La vinificazione prevede una lunga macerazione di tre settimane. Dopo la fermentazione malolattica, il vino matura 12 mesi in botticelle da 500 litri. Dopo l'imbottigliamento affina per un anno in bottiglia prima della vendita.
L'Uvalino di Cascina Castlèt si chiama Uceline. Il nome non è scelto a caso, come ha approfondito l'enologo Gianluigi Bera che si occupò della ricerca storica: agli inizi del Seicento, nella collina torinese e in Astesana, si designavano uve a maturazione talmente tardiva da essere vendemmiate quando le viti avevano perso tutte le foglie, al punto che gli uccelli se ne cibavano largamente.